IL PRETORE
    Nelle cause riunite iscritte al r.g.l. nn. 3528 - 3563  -  9353  -
 9387  - 9699/1991 promosse da: Vittorioso Maria piu' altri, assistiti
 dagli avv.ti S. Bonetto, M. Caffaratti, V. Martino,  N.  Raffone,  A.
 Vitale,  attori,  contro  S.p.a. Fiat auto, assistita dagli avv.ti F.
 Bonamico, G.P. Borsotti, prof. P. Tosi, convenuta;
    Letti gli atti;
    Udita la discussione orale dei procuratori;
 ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione  degli  atti  alla
 Corte costituzionale.
                            P R E M E S S A
    1.  - Con separati ricorsi, poi riuniti, i ricorrenti, premesso di
 essere dipendenti della societa' convenuta, lamentano che questa, pur
 obbligata, in virtu' di accordi e contratti collettivi, a  fornire  a
 tutti  i  lavoratori che intendano usufruirne, un servizio permanente
 di  ristorazione  aziendale  con  buona  parte  del  costo  a  carico
 dell'azienda  medesima,  abbia  tenuto  conto  - negli accantonamenti
 annuali per indennita' di anzianita' e T.F.R.  e  nella  retribuzione
 del   salario  indiretto  (festivita',  ferie,  gratifica  natalizia,
 P.R.O., R.O.) - non gia'  del  valore  effettivo  del  pasto,  bensi'
 solamente  dell'importo  giornaliero  di  L. 172, corrispondente, per
 ragguaglio convenzionale, ad un'indennita'  erogata  aziendalmente  a
 coloro   che  della  ristorazione  non  usufruiscono.  Chiedono,  per
 conseguenza, la condanna della convenuta al maggior accantonamento ed
 al pagamento delle differenze retributive, come da conteggi in  atti,
 oltre rivalutazioni di legge.
    Costituendosi   in   giudizio,  la  societa'  Fiat  auto  contesta
 sostanzialmente,con varie argomentazioni, la natura  retributiva  del
 servizio  mensa,  affermando  che  esso  e'  posto  a  presidio di un
 interesse  prevalentemente  "egoistico"  dell'imprenditore  e   cioe'
 quello  di  evitare  "le  disfunzioni  del  pendolarismo e di una non
 sollecita  e  disaggregata  ripresa  del  lavoro"  (cosi'  si  legge,
 testualmente, nella memoria difensiva).
    Sostiene   comunque  la  convenuta,  a  prescindere  dalla  natura
 retributiva o meno del servizio, la non computabilita' del valore re-
 ale del pasto negli istituti salariali in argomento.
    2. -  E'  assolutamente  incontroverso  tra  le  parti  che  fonte
 primaria   di   cognizione   nella   presente   causa   e'  l'accordo
 interconfederale del 20 aprile 1956 (reso erga omnes  dal  d.P.R.  14
 luglio  1960,  n. 1026) il quale prevede, per quanto interessa questo
 processo, che, ai fini  degli  accantonamenti  e  delle  retribuzioni
 indirette,  l'azienda possa tener conto non gia' del valore effettivo
 del pasto bensi' dell'indennita' sostitutiva corrisposta  a  chi  del
 pasto non fruisce, in virtu' di ragguaglio convenzionale tra il primo
 e  la  seconda  (che  presso l'azienda convenuta ammonta, per accordo
 aziendale del 1969, tuttora valido, a L. 172).
    3. - Il remittente ha gia' deciso questione identica (con sentenza
 non definitiva 24 luglio 1992) ritenendo la  natura  retributiva  del
 servizio  di  mensa  ed  il  diritto dei ricorrenti di veder inserito
 nella base di computo di tutti gli istituti di cui al  punto  1)  non
 gia'  l'indennita' sostitutiva bensi' il valore "reale" pari al costo
 del pasto stesso quale sostenuto dall'azienda, nei limiti del  numero
 dei pasti effettivamente consumati.
    Da tale giurisprudenza non vi e' ragione alcuna per discostarsi.
    Della  predetta  pronuncia,  ferma  restando  la premessa circa la
 natura  retributiva  del  servizio  mensa,  ai  fini  della  presente
 questione di costituzionalita' - come tra breve si chiarira' - rileva
 la  parte  in  cui  si e' ritenuta la nullita' del menzionato accordo
 interconfederale del 20 aprile 1956 per contrasto con le norme imper-
 ative  regolanti  il  trattamento  degli  istituti   retributivi   di
 carattere  legale:  cio'  in  forza dell'art. 5 della legge 14 luglio
 1959, secondo cui "Le norme di cui all'art. 1 della presente legge (i
 decreti delegati con i quali il governo  poteva  recepire  accordi  e
 contratti   collettivi   vigenti,  n.d.e.)  non  potranno  essere  in
 contrasto con norme imperative di legge".
    Come  conseguenza  della rilevata nullita', si e' fatta discendere
 la sostituzione delle clausole viziate, ai sensi degli artt.  1339  e
 1419  del  c.c.,  con  dette  norme imperative, a tenore delle quali,
 stante la  loro  previsione  di  onnicomprensivita'  retributiva,  si
 doveva  inserire nella base di computo dei singoli istituti, il costo
 effettivo del pasto aziendale.
    4. - Nelle more del giudizio e' entrato  in  vigore  il  d.l.  11
 luglio  1992,  n.  333 (convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359) il
 cui art. 6, terzo e quarto comma, prevede quanto segue:
       a)  terzo  comma:  "Salvo  che  gli  accordi  ed  i   contratti
 collettivi, anche aziendali, dispongano diversamente, stabilendo se e
 in  quale  misura  la  mensa e' retribuzione in natura, il valore del
 servizio mensa,  comunque  gestito  ed  erogato,  e  l'importo  della
 prestazione  pecuniaria  sostitutiva  di  esso,  percepita da chi non
 usufruisce del servizio istituito dall'azienda, non fanno parte della
 retribuzione  a  nessun  effetto  attinente  a  istituti   legali   e
 contrattuali del rapporto di lavoro subordinato";
       b)  quarto  comma:  "Sono  fatte  salve,  a far data dalla loro
 decorrenza, le disposizioni degli accordi e dei contratti collettivi,
 anche aziendali, pur se stipulati anteriormente alla data di  entrata
 in  vigore  del  presente  decreto,  che  prevedono  limiti  e valori
 convenzionali del servizio di mensa di cui al comma 3 e  dell'importo
 della   prestazione   sostitutiva  di  esso,  percepita  da  chi  non
 usufruisce del servizio istituito, a qualsiasi  effetto  attinente  a
 istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato".
                        O S S E R V A Z I O N I
     A)  E'  d'uopo  ricordare,  per  le  finalita' di cui appresso si
 dira', che la giurisprudenza di cassazione (in modo  costante  a  far
 tempo  dal  1989)  e  quella  di  merito  del tutto prevalente, hanno
 riconosciuto la natura sicuramente retributiva del servizio di  mensa
 nonche'  l'incidenza  del valore effettivo del pasto su tutti o parte
 degli istituti retributivi indiretti. In tal senso: cass., 7  gennaio
 1992, n. 84; cass., 20 agosto 1991, n. 8957; cass., 20 febbraio 1991,
 n.  1758; cass., 13 febbraio 1990, n. 1054; cass., 21 luglio 1989, n.
 3483; pret. Torino, 24 luglio 1992; pret. Torino,  23  ottobre  1991;
 pret.  Milano,  12 giugno 1991; pret. Milano, 31 dicembre 1990; pret.
 Pomigliano d'Arco, 7 maggio 1991;  contra  pret.  Milano,  29  giugno
 1991;  pret.  Milano, 28 maggio 1991; pret. Torino, 18 febbraio 1992;
 pret. Torino, 19  ottobre  1992  (peraltro  alcune  fra  le  sentenze
 contrarie  non  negano affatto il carattere retributivo del servizio:
 cosi' la seconda e, in particolare, la quarta citate).
     B) Altra premessa necessaria in relazione alla presente questione
 di legittimita'  costituzionale  e'  l'interpretazione  dell'art.  6,
 terzo  e  quarto comma, d.l. n. 333/1992 cit. Ad avviso del pretore,
 su cio' confortato in verita' dalle stesse parti in causa che,  anche
 in  sede  di discussione orale lo hanno ribadito, il terzo comma, in-
 troduce una nuova disciplina della materia pe  il  futuro,  in  basse
 alla  quale e' esclusa - salvo pattuizioni in deroga - ogni incidenza
 vuoi del valore effettivo del  pasto  vuoi  della  stessa  indennita'
 sostitutiva su qualsivoglia istituto retributivo.
    Dal  canto  suo, il quarto comma, ha invece sia una portata futura
 laddove chiarisce (nei limiti in cui ve ne  fosse  bisogno)  che  gli
 accordi  ed i contratti collettivi derogatori in melius non sono solo
 quelli avvenire bensi' anche  quelli  "stipulati  anteriormente  alla
 data  di  entrata  in  vigore  del  presente  decreto"; ha invece una
 portata indubbiamente retroattiva nella  parte  in  cui  sancisce  la
 salvezza  delle ridette pattuizioni collettive "a far data dalla loro
 decorrenza".
     C) Occorre domandarsi quale sia stata la finalita' avuta di  mira
 dal  legislatore  nell'emanare  il quarto comma: essa non puo' essere
 stata quella di  ribadire  semplicemente  che,  per  il  passato,  la
 questione  non  e'  regolata  dalla  nuova  legge bensi' da accordi e
 contratti collettivi anteriori e cio' perche', valendo il terzo comma
 per il futuro, e' principio istituzionale che per il passato valga la
 previgente disciplina (nella specie l'accordo  interconfederale  erga
 omnes  20 aprile 1956). Per contro l'espressione "sono fatte salve ..
 le disposizioni .. che prevedono limiti e  valori  convenzionali  del
 servizio  di  mensa  .."  induce  a  pensare che il legislatore abbia
 voluto introdurre una disposizione "a sanatoria" che rendesse  leciti
 ex tunc accordi con i quali le parti, in consapevole od inconsapevole
 contrasto  con  norme  non derogabili di legge, avevano per l'appunto
 inteso porre limiti o ridurre convenzionalmente il  valore  effettivo
 del  pasto aziendale ai fini del calcolo delle retribuzioni indirette
 e differite.
    In altre parole il legislatore mostra di essere,  nel  momento  in
 cui  legifera,  ben  al  corrente che la giurisprudenza assolutamente
 prevalente ha riconosciuto natura retributiva al  servizio  mensa  ed
 altresi'  ha  dichiarato  nulle  le clausole degli accordi collettivi
 che, in contrasto con le  normative  inderogabili  che  prevedono  il
 computo    di    determinati    istituti    secondo    il   principio
 dell'onnicomprensivita' retributiva, hanno vistosamente compresso  la
 base di calcolo.
    Anzi,  il  legislatore,  nel momento in cui "fa salve" pattuizioni
 collettive,     dimostra     di     accedere      all'interpretazione
 giurisprudenziale  appena  ricordata,  per  la  semplice ragione che,
 diversamente, non vi sarebbe stato alcun bisogno  di  "salvare"  cio'
 che  per  sua  natura  era valido e lecito e, pertanto, "salvo" in re
 ipsa.
    In  buona  sostanza  il  quarto  comma,  e'  una  norma  che  sana
 retroattivamente   (a   distanza  di  quasi  quarant'anni  dalla  sua
 stipulazione)  una  normativa  pattizia  che,   secondo   la   stessa
 interpretazione  del  legislatore,  era in contrasto con norme imper-
 ative di legge.
     D) Torna del tutto acconcio  richiamare  due  principi  affermati
 dalla  stessa Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza 4 aprile
 1990, n. 155, in foro it., 1990, I, 3072 ed  in  giur.  Cost.,  1990,
 952;  v.  anche  sent.  8  luglio 1957, n. 118, in foro it., 1957, I,
 1133), in tema di norme interpretative (e quindi  sempre  nell'ambito
 della materia della retroattivita' delle leggi):
       a)  la  legge  interpretativa (e quindi la legge retroattiva in
 generale di cui quella interpretativa e' una specie) non viola di per
 se' gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione, a meno che essa  non
 leda  il  giudicato gia' formatosi o non sia intenzionalmente diretta
 ad incidere sui giudizi in corso;
       b) l'irretroattivita' costituisce  un  principio  generale  del
 nostro  ordinamento  (art.  11 delle preleggi) e, se pur non elevato,
 fuori dalla materia  penale,  a  dignita'  costituzionale  (art.  25,
 secondo comma, della Costituzione), rappresenta pur sempre una regola
 essenziale    del   sistema   a   cui,   salva   un'effettiva   causa
 giustificatrice, il legislatore deve  ragionevolmente  attenersi,  in
 quanto  la  certezza  dei  rapporti preteriti costituisce un indubbio
 cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei cittadini.
    Ove la norma retroattiva violi il principio di ragionevolezza  cui
 essa,  al  pari  di  tutte  le  leggi, deve sottostare, dovra' essere
 dichiarata  incostituzionale  per  contrasto  con  l'art.   3   della
 Costituzione.
     E)  Ad avviso del pretore, la norma dell'art. 6, quarto comma del
 d.l. n. 333/1992, viola entrambi i principi  sopra  ricordati  e  si
 pone  pertanto  in contrasto con gli artt. 101, 102, 104 (nonche' 24)
 della Costituzione.
     F)  Pare  al  remittente  che  la  norma  sospettata  vulneri  le
 attribuzioni del potere giudiziario e cio' si ricava, in particolare,
 sia dai lavori parlamentari che dalla stessa interpretazione storico-
 sistematica della norma.
     F1)  Nella relazione governativa di accompagnamento al disegno di
 legge di conversione del d.l. n.  333/1992,  si  legge  testualmente
 (cfr.  Atti XI Legislatura, Camera del deputati n. 1287, capo II): "I
 commi  da  3  a  7  dell'art.  6  disciplinano   la   materia   della
 computabilita'  del  servizio di mensa agli effetti retributivi .. Si
 va consolidando, in proposito, l'indirizzo giurisprudenziale  secondo
 cui  il  valore  della  mensa  e' quello reale o equivalente al pasto
 (costo  reale  del  servizio)  e  non  il  valore   convenzionalmente
 stabilito dalle parti, ove questo sia inferiore al primo.
    Cio'  ha  indotto  ad un cospicuo insostenibile appesantimento del
 costo del lavoro, calcolabile in via approssimativa in 2,5 milioni di
 lire annui per addetto, oltretutto in un momento di  difficolta'  per
 il   sistema   produttivo  del  Paese,  anche  con  riferimento  alla
 concorrenza internazionale.  Le  imprese  a  fronte  di  cio'  stanno
 disdettando le convenzioni per il servizio di mensa ..
    La   presente  situazione  cosi'  delineatasi  esige,  dunque,  un
 intervento immediato che, chiarendo la situazione normativa nel senso
 di affermare la natura di  servizio  della  mensa  organizzata  dalle
 imprese,  restituisca alla contrattazione collettiva, la sua funzione
 di stabilire la rilevanza del beneficio  sugli  istituti  retributivi
 sia con riferimento agli accordi in essere sia per il prosieguo".
     F2)  Dai  lavori  delle  commissioni  riunite  (V  e  VI) in sede
 referente - cfr. atti della seduta del 16 luglio 1992 - si  apprende,
 dalle  relazioni  di maggioranza (in particolare pag. 8) che: "Con le
 norme di cui ai comma da  3  a  7  si  intende  evitare  gli  effetti
 economici  determinati  da recenti pronunce giurisprudenziali secondo
 cui il valore della mensa e della relativa indennita' sostitutiva  e'
 quello  reale e non quello convenzionalmente stabilito dalle parti ed
 e'  computabile  ai  fini  del   trattamento   per   le   festivita',
 dell'indennita'  di anzianita', del trattamento per le ferie e per la
 gratifica natalizia e cioe' ai fini dei cosiddetti 'istituti interni'
 ..".
     F3) Una riprova, a contrario,  della  -  peraltro  chiarissima  -
 volonta'  del  legislatore,  viene dal tenore di alcuni interventi da
 parte di rappresentanti delle opposizioni: si  segnala,  fra  questi,
 anche   per   la   specifica   competenza   in  materia  dell'oratore
 l'intervento dell'on. Giorgio Ghezzi (in  atti  parlamentari,  Camera
 dei deputati, XI legislatura, discussioni, sedute del 27 luglio 1992,
 1899)   il   quale,   fra   l'altro,   gia'  ipotizza  la  necessita'
 dell'intervento   della   Corte    costituzionale,    sostanzialmente
 richiamando  profili  analoghi  a  quelli  evidenziati nella presente
 ordinanza.
     F4) Appare, dunque, di solare evidenza come la finalita' avuta di
 mira dal legislatore sia stata quella di intervenire  per  modificare
 d'imperio  un'interpretazione  giurisprudenziale  sgradita, in quanto
 asseritamente  contrastante  con   superiori   interessi   economici,
 sconfinando chiaramente nell'area di operativita' che la Costituzione
 riserva  alla  Magistratura  e,  quindi,  con autoattribuzione di non
 previsti poteri, esercitati, oltretutto, sulla spinta di interessi di
 cui  non  puo'  tenersi  conto   nell'interpretazione   delle   fonti
 normative.
     G)    Conforta    il   medesimo   dubbio   di   costituzionalita'
 l'interpretazione storico-sistematica della norma  in  questione.  In
 primis la disciplina della mensa contenuta nel d.l. n. 333/1992, che
 e'  la  trasposizione letterale dell'art. 1 del c.d. "disegno Marini"
 (veramente tale, tant'e' che, per un refuso, nel quarto comma  si  fa
 riferimento  ad un primo comma che non si occupa della materia mentre
 se ne occupava nel "disegno Marini" e' inserita in un testo di  legge
 che  riguarda,  come  testimonia  il  titolo,  "Misure urgenti per il
 risanamento della finanza  pubblica"  e  cioe'  materia  tutt'affatto
 diversa ed estranea a quella delle mense aziendali.
    Inoltre  vien fatto di domandarsi come mai, soltanto a distanza di
 quasi  quarant'anni  dalla  stipulazione   del   principale   accordo
 collettivo  in  punto  (A.I.  del  20  aprile  1956) e soltanto in un
 momento storico nel quale e' esploso il contenzioso  giudiziario,  il
 legislatore senta il bisogno di intervenire retroattivamente, bisogno
 non sentito per nulla in un cosi' ampio arco di tempo.
    Ad  avviso  del  pretore, la risposta e', ancora una volta, che la
 norma e' stata pensata solo allo specifico scopo di soffocare - e  di
 farlo  con  rapidita'  -  un  diritto  giurisprudenziale  in  via  di
 consolidamento su un tipo di interpretazione non gradita.
     H) La norma impugnata vulnera altresi', ad avviso del remittente,
 l'art. 24 della Costituzione.
    Come gia' affermato dalla Corte costituzionale  (sent.  10  aprile
 1987  n.  123,  in foro it., 1987, I, 1351), allorquando l'effetto di
 una norma sia quello di sottrarre  al  Giudice  la  cognizione  della
 controversia in corso - con una preclusione ad esaminare il merito ed
 un  mancato rispetto dei giudici e, comunque, di pronunce gia' emesse
 - la norma stessa (sia essa retroattiva semplice o di sanatoria ecc.)
 e' anche in contrasto con l'art.  24  della  Costituzione,  di  fatto
 andando   a   comprimere   il   diritto   di  difesa  dei  cittadini,
 necessariamente connesso con  la  corretta  esplicazione  del  potere
 giurisdizionale di cui e' il contraltare.
     I)  Per  altro verso la norma impugnata pare violare il principio
 di ragionevolezza richiamato sub D.b).
    Ritiene il pretore che il caso in esame sia  speculare,  in  parte
 qua,  a  quello  esaminato e risolto nella sentenza n. 155/1990 cit.,
 con  l'affermazione  che  "risulta  priva  di  razionale   fondamento
 l'attribuzione di un'efficacia estesa retroattivamente per un periodo
 di  ben  sei  anni:  con  essa infatti e' stata conferita validita' a
 negozi giuridici che  inizialmente  erano  invalidi  -  e  tali  sono
 rimasti  per lungo tempo - in quanto considerati contrastanti secondo
 la ratio della legge allora in vigore, e  il  suo  inequivoco  tenore
 letterale,  con  la  tutela del valore espresso dal ricordato art. 21
 della Costituzione".
    Anche nella fattispecie oggi in esame sono  ravvisabili  -  ed  in
 maggior misura - gli stessi vizi.
    Invero,  nel  caso,  la norma del quarto comma retroagisce non per
 sei bensi', come gia' piu' volte ricordato, per  quasi  quarant'anni;
 inoltre  sana,  con  effetto  ex  tunc,  una  situazione  non di mera
 irregolarita', ma di invalidita' della  norma  posta  collettivamente
 per  contrasto  con  norme imperative ed inderogabili di legge, quali
 quelle  disciplinanti  il  computo  degli  istituti  retributivi   di
 carattere  legale:  in  altre  parole la legge rende retroattivamente
 lecito cio' che tale non era (e tale non  e'  stato  per  lunghissimo
 tempo).
    Non  convince,  a  parere  dell'estensore,  la tesi che ravvisa la
 ragionevolezza della norma nel fatto che,  in  buona  sostanza,  essa
 ratifica  quel che le parti sociali hanno sempre voluto e considerato
 valido ed efficace nei loro rapporti. Tale tesi trova il  suo  limite
 nell'eccessiva   esaltazione   del   momento   "privatistico"   della
 contrattazione stessa. Se, infatti, e' vero che - almeno  per  quanto
 attiene  agli  interessi  dei  lavoratori  - le organizzazioni che li
 tutelano hanno rango costituzionale ex art.  39  della  Costituzione,
 cio'  nondimeno  non  possono dette organizzazioni, sia pure d'intesa
 con le  controparti  sociali,  stipulare  accordi  in  violazione  di
 principi  inderogabili, espressione di una potesta' superiore, almeno
 fintantoche' tali principi non siano modificati.
    Per conseguenza e' irragionevole  che  una  norma  di  legge  sani
 retroattivamente   una  situazione  palesemente  confliggente  con  i
 principi in questione, in nome dell'autonomia  delle  parti  sociali.
 Essa  viola  invece  un principio-cardine dell'ordinamento giuridico,
 cioe' quello della certezza del diritto  e  dei  rapporti  giuridici,
 certezza  che  non  e'  quella  collettiva a che i patti (collettivi)
 siano salvaguardati, ma quella individuale a che siano rispettate  le
 regole fondamentali del sistema costituzionale.
     L)  Da  ultimo  si  evidenzia,  richiamando specificamente quanto
 osservato sub B) e C), che  la  questione  di  costituzionalita'  e',
 oltre  che  non  manifestamente infondata, anche rilevante, in quanto
 l'esistenza della  norma  impugnata  impedisce  l'accoglimento  delle
 domande attoree.